Mi capita spesso di andare dalla mia (nuova) fumetteria di fiducia e, oltre a ordinare il pane (perché se chiedi un sacchetto ti mettono l’albo in una busta di carta marrone di cui l’unica funzione pare essere coprire l’acquisto come i preservativi in farmacia), chiedo al commesso: “Consigliami qualcosa che ti è piaciuto un sacco”.
Se sei davvero finito nella fumetteria di fiducia allora non ti sbobinano solo roba per vendere, ma ascoltano la tua richiesta, ci pensano, e ti mettono in mano cose come I giorni che scompaiono, di Timothé Le Boucher.
Sì, questa è una recensione positiva.
E parto col dirti che se intenzionati a immergervi in una deliziosa poesia malinconica, allora non leggere il retro della copertina… ma nemmeno questa recensione.
Se ti piacciono i fumetti dal tono pacato, molto umani, che lasciano dentro quel senso di un qualcosa che vi ha arricchito, ma al prezzo di una scomoda verità, allora prendilo alla cieca e fidati, come io mi sono fidato del commesso della panetteria.
Se siete degli stronzi scettici continuate a leggere questa recensione, con la consapevolezza che perderete un po’ di magia.
I giorni che scompaiono ha un incipit accattivante. Lubin – protagonista -salta un giorno su due. Dormiglione? No. Amnesia? Nemmeno.
E allora cosa? (Giuro che scriverlo mi costa fatica. Mi pare di strappare banconote da cento. La morte di una storia. Ma se non lo faccio non posso farvi capire).
Doppia personalità.
“Sai che roba” starai dicendo con l’hot dog in mano.
Graziealcazzo, che se una cosa viene detta è banale. Ma se cominci a leggere di un acrobata che non ha mai avuto tale disturbo e dopo una caduta salta un giorno, ti assicuro che non è proprio la prima cosa che viene in mente!
La magia di questo fumetto non è tanto la storia ma come è raccontata.
Ora – sul serio – non andare avanti a leggere queste righe. Te lo chiedo a livello personale. Finisce che poi non lo compri e ci rimango male.
Facciamo così: ti fermi qui, lo prendi e quando l’hai finito torni e continui a leggere cercando di capire se ho scritto cagate. Ok?
Mi fido.
Io aspetto.
…
Bentornato!
Quanto tempo, eh?
Allora, dove eravamo rimasti?
Il bello è come viene raccontato, dicevo qualche giorno fa. Perché cosa succede se non è più un giorno su due, ma uno su tre? E poi uno su quattro. E poi uno su..?
Non ricordo. Vabbé, fai che aumentano esponenzialmente fino ad arrivare che ti addormenti e passano anni interi. La vita ti scivola via e non te ne accorgi nemmeno. L’insegnamento che ci lascia questa cazzo di bellissima storia è che il tempo passa e tutto sembra superfluo. Ma non è così banale. Porcapupazza, l’ho letto ieri sera tutto d’un botto e ho perso quel concetto forte. È rimasta la sensazione. L’insegnamento.
A te no?
Ammetto che mi è spiaciuto che il ritmo cresca di botto, facendoti perdere un po’ quel confort ritmato con cui comincia. Però non può essere una critica perché non si può fare altrimenti. Specie se adotti la scelta (forse scontata, ma sicuramente d’impatto), di non far mai vedere la vita “dell’altro”.
Bello.
Sono triste da ieri, ma bello.
Se l’avete letto (o se dovete ancora farlo perché sei un infame), prova a tornare sulle vignette. Perché alla fine il potenziale narrativo del fumetto è questo. Guardate le inquadrature e i dettagli, le informazioni passate senza usare i dialoghi. Il ritmo lento e scandito che via via si fa più veloce. E la terribile certezza, crescente, inesorabile, che alla fine…
Bello.
Sono triste da ieri, ma bello.
L’unica cosa che mi sta un po’ in culo – ma alla fine che cazzo ne so io? – è una leggera inclinazione all’orientale nel tratto, specie in qualche personaggio. I francesi, maestri del fumetto da sempre, ma che mi fanno quelle espressioncine un po’ così che, boh, vabbé, guarda lascio correre solo perché mi ha fatto venire il magone.
Ma a parte questo, la colorazione a pastello (dico cose a caso), pacata e non aggressiva, si sposa benissimo con i toni della storia e fa capire che il nostro Timothé l’ha sentita la storia e non solo raccontata・
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