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Black knot e i giochi di parole

In quel di Lucca 2018, gli amici della Noise Press hanno presentato un nuovo prodotto noir chiamato Black knot, che ci aveva colpito già dalle prime tavole.

Black knot è un albo che nasce da un soggetto di David Ferracci, con sceneggiatura di Giovanni Fubi Guida. Ferracci però non ha solo pensato l’albo, ma si è anche occupato dei disegni, e ha sviluppato il progetto grafico assieme ad Alessandra Delfino. L’albo in se è supervisionato da Luca Frigerio, e letterato da Marco della Verde.
E sì, è sempre importante citare tutti quando si parla di un fumetto. Anche per dire grazie a chi si sbatte per farci leggere qualcosa che non siano fogli da stampante pinzate male (che poi il giornalino scolastico del mio liceo era un’insieme di fogli da stampante pinzati male, ma era bellissimo. Tranne la pagina sui fumetti che la scriveva un ciccione con gli occhiali che trovo insopportabile, chissà che fine ha fatto…
Ehi, aspetta un attimo…)

Black knot, è la storia di Desh Westwood, un detective in una non meglio specificata città americana, in un 1952 parallelo. Sta indagando su una misteriosa serie di omicidi, e lo fa usando un’abilità tutta particolare, che lo rende diverso da un normale poliziotto.
Chi si nasconde dietro il nome di killer del nodo nero? E siamo sicuri che sia la risoluzione del mistero il vero centro dell’albo?
In principio, la premessa di Black knot, non mi aveva colpito particolarmente. Sarò forse figlio di un epoca dove la narrativa poliziesca dove un detective ha qualcosa che lo rende particolare – che nel caso di Deash è un potere sovrannaturale, peraltro già visto in opere simili – mi ha un po’ stufato. Ma, continuando la lettura, devo dire che la progressione della storia, mi ha fatto cambiare idea.

Certo, sarebbe disonesto dire che si tratta di una premessa derivativa, ma come è ormai consuetudine, le idee vengono sempre replicate e reimbottigliate, e quello che le rende di nuovo uniche, è la forma.

Black knot, è un albo distinto.
Distinto perché gioca benissimo con la sua scala di grigi, con una progressione che va avanti con la storia, inserendo a volte delle macchie di bianco che confondo e abbagliano, come confondono e abbagliano anche il suo protagonista. Sono d’accordo che non si giudichi un libro dalla copertina, ma in questo caso, un semplice effetto laminato ci dà un’idea precisa di quello che andremo a vedere, risultando il perfetto biglietto da visita dell’opera.
Distinto perché, sebbene Black knot sia un misto fra noir, horror e poliziesco, riesce comunque a uscire con la sua personalità, e una sorta di dicotomia pessimista/ottimista di fondo, dove il mondo dove vivono i nostri protagonisti è avvolto da un grigiore perenne, ma quello che c’è dopo il mondo, è in realtà investito di luce.
Distinto, perché anche la personalità, lo stile dei suoi autori, esce da ogni pagina, e prende vita in un prodotto che non potrebbe essere venuto in altro modo, tanto riesce a essere interconnesso, a livello di trama, e di disegno.

Il tratto di Ferracci, è molto particolare, spiccatamente europeo, e riesce a dare il suo meglio specialmente nell’espressività dei personaggi, nel dare corpo e carattere al cast, riuscendo a bilanciare momenti più sereni, a tinte forti, e disturbanti.
La sceneggiatura di Fubi scorre veloce, con dialoghi molto asciutti, ma comunque sul pezzo, e un’ottima progressione fra una vignetta e l’altra, che si incastrano, annodandosi l’un l’altra, e finendo poi per dare vita a una solida legatura. Buffo. Come fosse un nodo, in scala di nero.

Va detto però, che Black knot è anche un fumetto d’istinto – spero mi perdonerete il gioco di parole di seconda lega – ma me lo tengo in testa dal paragrafo due. D’istinto, perché, la scorrevolezza è la sua grande debolezza. Fra i suoi segnali di stile e i suoi salti carpiati nella bicromia, si perde un po’ la progressione della trama, che risulta in alcuni casi troppo, troppo, affrettata. C’è molta carne al fuoco, in questo primo volume, è vero. Ma è vero che molta resta al sangue. I comprimari dell’albo sono spesso abbozzati, e riescono a rubare al nostro protagonista due/tre vignette, per poi sparire di nuovo nel vento, perché la trama principale ha la precedenza… ma nel vento è ormai sparita anche lei.
Spesso ho pensato di aver saltato qualche pagina, pensando di essermi perso qualche dettaglio, ma la verità è che il dettaglio, semplicemente non c’era.

Io sono assolutamente pro a un fumetto non sempre lineare, che lasci molto all’immaginazione del lettore. Un fumetto che faccia sì che lo spazio fra una vignetta e l’altra sia il suo spazio – spazio bianco dove deve essere lui a riempire – e passare giornate a pensare cosa volesse dire l’autore con questo o con quel dialogo.
Black knot, a volte lascia un po’ troppo all’immaginazione, e se avesse corso con meno foga verso la fine – forse – avrebbe avuto un po’ più di corpo.

Valutandolo però nel suo complesso mi sento di consigliare questo albo. Principalmente per un motivo: qualsiasi fumetto che leggerete nella vostra vita, ha qualcosa del suo autore all’interno. Shockante, me ne rendo conto, son quasi certo di essere il primo a dirlo nella storia.
Comunque, capita spesso, con un progetto autoriale, che il team creativo o butti troppo se stesso nella sua storia, dando vita a un qualcosa di esagerato e spocchioso, o che non si butti abbastanza e che prenda vita un qualcosa di incolore.

Ecco, Black knot riesce, nel fare tutto quello che i fumetti autoriali belli, riescono a fare: raggiungere la metà. Quella metà dove si vede che abbiamo davanti un progetto nato per passione, ma si vede anche un lavoro ben costruito e ben studiato.
Una sorta di bicromia a fumetti, come la bicromia del fumetto, creando così un parallelismo, che se fossi un critico serio potreste pensare che io avessi ideato subito per finire la recensione col botto, e invece questo paragrafo lo sto scrivendo a braccio, e la cosa che avevo pensato era “Distinto” “D’istinto”. Che volete che vi dica, sono un po’ strano.
Ma tornando a Black knot, il nodo nero, regge la corda del buon fumetto. Con qualche attenzione in più, e un po’ più di calma, il lavoro ha anche le potenzialità per diventare qualcosa di più.
E francamente, io, a un albo a fumetti, non so cosa chiedere di più・

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